Lavoro e legalità sono temi che si intrecciano e si condizionano reciprocamente. Ed entrambi sono fattori imprescindibili per l’affermazione di una democrazia piena. Sul rapporto tra lavoro, legalità e democrazia lo scorso anno la Cgil Lecce ha organizzato a Casarano un incontro con ad hoc, alla presenza di giuristi e magistrati. La vicenda della Gial.Plast come quella di altre grandi aziende salentine interessate in passato da interdittiva antimafia, ripropone un tema delicato: la contrapposizione tra legalità e tutela del lavoro. Per contrastare l’infiltrazione mafiosa nelle aziende, si corre il rischio di colpire lavoratori che hanno provato a rifarsi una vita e di dare al malaffare la possibilità di reclutare nuovamente persone non intravedono più la prospettiva di vivere onestamente.

Il titolo del Nuovo Quotidiano di Puglia, edizione del 23 marzo 2019

Le misure interdittive spesso conducono le aziende ad agire in autotutela, licenziando i soggetti alle loro dipendenze che risultino nominati nelle informative antimafia. Nel calderone, assieme a personaggi-spia che effettivamente fungono da tramite tra azienda e criminalità, rischiano di finire pure altre persone. Per esempio chi ha riportato condanne penali, anche diversi anni fa, e che proprio sul lavoro ha scommesso per riabilitarsi. Si sono scritti protocolli negli anni per garantire l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione sul reinserimento in società dei detenuti. Proprio il settore dell’igiene ambientale ha rappresentato nel corso degli ultimi 30 anni un progetto di “opportunità” di riscatto per molti ex-detenuti. Eppure proprio le condanne, i precedenti penali, talvolta semplici indagini sono alla base delle interdittive. Una volta che il provvedimento prefettizio giunge all’azienda, per la parte dei lavoratori di cui parliamo oggi – quelli onesti, quelli ravveduti – arriva una seconda crudele condanna: quella a dover convivere per sempre con lo stigma, col pregiudizio, con la negazione dell’articolo 27.

Il contratto nazionale del settore igiene ambientale già prevede l’obbligo di presentazione del certificato del casellario giudiziale e carichi pendenti prima dell’assunzione. Evidentemente ciò non basta a creare gli anticorpi giusti: servirebbero codici di autoregolamentazione meno superficiali, maggiore oculatezza in fase di assunzione, ma anche attenzione al vissuto dei lavoratori prima di emettere le interdittive. Altrimenti accanto a chi non si è mai pentito delle proprie condotte, rischia di pagare anche, chi ha espiato la propria colpa, chi si è ravveduto. E questa sarebbe una sconfitta per tutti.

La posizione della Cgil è chiara: se non c’è lavoro, dilaga l’illegalità e diminuisce la fruizione di diritti e libertà; allo stesso tempo, se manca il requisito della legalità, le imprese faticano a creare posti di lavoro di qualità, in grado di garantire dignità alle persone. Dunque affermiamo con certezza che il lavoro è il principale mezzo attraverso cui è possibile reintegrare nelle comunità soggetti ritenuti “a rischio”. Se c’è infiltrazione mafiosa in un’azienda, a maggior ragione se questa opera in appalti pubblici, è doveroso e necessario che lo Stato agisca per tutelare l’economia legale dal fenomeno della infiltrazione. Ma lo Stato deve preservare i diritti dei lavoratori onesti che inconsapevolmente operano in una società viziata dal tocco criminale. Così come vanno tutelate quelle persone che cercano di rifarsi una vita dopo una condanna o dopo aver sfiorato certi ambienti. Chi ha già pagato il proprio conto con la giustizia ha diritto attraverso un lavoro onesto di voltare pagina. Togliamo le imprese dalle mire della criminalità organizzata, puniamo le persone che non si sono ravvedute, ma evitiamo di togliere il posto di lavoro a chi si è davvero pentito e ha intrapreso un nuovo corso.

 

Valentina Fragassi, segretaria generale Cgil Lecce

Paolo Taurino, segretario provinciale Fp Cgil Lecce